L’importanza della condivisione al parco.

Rimango assai colpita dalla facile e spicciola presunta psicopedagogia che latita nei social network, rischiando a volte di minare le basi della civile convivenza se letta e mal interpretata da un’utenza distratta e poco critica. Ecco una slide in cui mi sono imbattuta stamattina su Facebook.

Contro la Condivisione?

Messa così com’è raccontata nella slide, sembra davvero una pretesa ma l’intento educativo della condivisione al parco, per quanto possa apparire coercitivo per la spontanea attitudine del bambino a possedere le cose in modo esclusivo, non è paragonabile agli esempi di borsa e auto degli adulti, per il semplice motivo che si rivolge a creature in formazione, che stanno sviluppando il corretto significato ed uso dei concetti di possesso e condivisione mentre ci si augura che il processo di distacco dai beni materiali per ragioni superiori o spirituali (recare piacere, aiutare, rinunciare, aspettare, ecc.) sia ormai consolidato in un adulto (anche di quello con borsa firmata o auto da grossa cilindrata) ed in quanto educatore, pedagogo o formatore non ho ragioni per avanzare la stessa pretesa sociale.

Il contesto culturale di un parco giochi è invece una palestra sociale importante e basilare per l’interiorizzazione dei processi di condivisione e collaborazione. E qui farei il secondo appunto alla slide: non c’entra nulla l’altruismo, che è altra condotta prosociale, come differente è la consolazione, il sostegno e l’aiuto, unidirezionale o reciproco. Distinguere tra le varie forme in cui l’essere umano è in grado di esercitare la propria (spontanea?) propensione alla positività sociale dovrebbe esser d’obbligo tra chi si impegna a comprendere questi fenomeni. Altrimenti ho la sensazione che si tendano a creare messaggi comunicativi rumorosi ma vuoti.

Chiedere al proprio bambino di condividere un proprio oggetto al parco, ancor fosse il preferito, significa creargli o crearle quella fondamentale dimensione spazio-temporale in cui può sperimentare l’utile sospensione del proprio quotidiano e costante vissuto relazionale con il proprio mondo fisico: il contesto è protetto, perché ci sono io, genitore, nonno, tata o quant’altro, garante che, alla fine dello scambio sociale, l’ordine sarà ricomposto e tu rientrerai in possesso del tuo. Chiedere di condividere equivale anche ad affermare “Fidati di me! Lascia andare quel bene fisico perché il bene non fisico in ballo ne vale la pena”. E il bene “non fisico” in questione è la possibilità di vedere la sorpresa, la soddisfazione, a volte la gratitudine nello sguardo dell’altro bambino. Altro da me, bambino, ma come me, bambino. Quella sorpresa, quella soddisfazione, quella gratitudine potrebbero essere le mie. L’utile proiezione che ne può derivare non dovrebbe avere bisogno di spiegazione.

Altro bene “non fisico” è l’acquisizione della struttura socialmente condivisa che delimita il possesso degli oggetti. Se capisco che posso prestare una cosa mia per poi rivenirne in possesso comprendo altre due cose fondamentali allo stare (bene) insieme: che anch’io posso avere qualcosa in prestito, qualora mi sorgesse il desiderio (il che equivale anche a legittimare e non colpevolizzare la naturale curiosità dei bambini sugli oggetti altrui) e che, qualora le azioni non si svolgessero nella sequenza esperita (richiesta-prestito-restituzione), qualcuno sarebbe vittima di un atto sociale negativo, comunemente definito “furto”. Anche tra bambini.

Se con la slide s’intende non supportare la condivisione dei propri beni al parco, in nome di una presunta maggiore attenzione e cura dell’interiorità infantile, allora il passo successivo purtroppo potrebbe essere quello di non contenere le condotte di “appropriazione indebita” proprie dei bambini: non basta pensare di poter “insegnare il rispetto per le cose altrui quando avranno l’età per comprenderlo” se non si ragiona su quale sia quest’età e quali i mezzi per insegnare tale rispetto. L’età del condividere è la stessa del rubare. Non posso impedire una cosa se non promuovo l’altra. Se non invito a condividere, spiegando perché, come potrò far desistere un bambino dal prendere il gioco preferito di un altro? Sulla base di quale precedente interiorizzazione di scambi sociali dovrebbe fondarsi l’accondiscendenza del bambino? La proibizione (non si fa) può forse portare obbedienza (non lo faccio) ma non necessariamente comprensione (è sbagliato perché…).

“Non educhiamo i nostri figli a dire sì quando vorrebbero dire no…”. Quanto questa frase seduce un adulto, volenteroso genitore, che pretende da se stesso di garantire al proprio figlio rispetto senza (apparente) sofferenza? Ciò che però la frase nasconde è la negazione della necessità del compromesso e della negoziazione sociale: non si tratta di forzare un sistema (sì versus no) ma di indicargli un esercizio (per ora versus mai) per percorrere una strada che porti a raggiungere ottimali obiettivi sociali (stare bene con gli altri). Inoltre la frase dimentica che il “no” è, con le parole di Spitz, un naturale “organizzatore” psichico per il bambino, che non andrebbe strumentalizzato ma analizzato e rispettato: nell’opposizione del no il bambino sperimenta il distacco e l’autonomia ma è nel superamento di tale contrarietà che poi interiorizza il ricongiungimento e la ricomposizione sociale. Perché autonomia non significa indipendenza, anzi:

“l’autonomia non consiste nella conquista di una indipendenza sempre maggiore ma, al contrario, nell’accettazione di quanto sia insignificante la nostra vita senza quei significativi altri

diceva Bordi, dove i “significativi altri” sono coloro per i quali la nostra esistenza ha un significato e che rendono significativa la nostra esperienza di vita.

Allora educhiamo i nostri figli non già all’arroccarsi sul proprio no ma allo scoprire l’universo degli altri. Perché i “significativi altri” sono fuori da noi. Anche in un parco giochi.